La storia dei naufraghi adolescenti che per scappare da una scuola severa sono finiti su un'isola deserta
La storia dei naufraghi adolescenti che per scappare da una scuola severa sono finiti su un’isola deserta

Il romanzo “Robinson Crusoe” è stato il primo di una lunga serie di romanzi letterari che hanno come protagonisti racconti di naufraghi. Il fascino della libertà, dell’uomo che torna ad essere un elemento nella natura selvaggia, ha da sempre affascinato e conquistato i lettori. Ma se per molti queste sono solo fantasie, per qualcuno sono diventate realtà. E’ il caso dell’odissea conosciuta come “l’incredibile storia dei naufraghi tongani”, che è diventata un punto di riferimento per la sopravvivenza in mare aperto. La vicenda narra la storia di sei giovani naufraghi, e viene spesso messa a confronto con il classico della letteratura di William Golding “Il signore delle mosche”, che vi consigliamo di leggere.

 

La lezione dei naufraghi tongani

I ragazzi erano fuggiti da una severa scuola anglicana a Tongatapu, quando decisero di mettersi in mare. Si ritrovarono a naufragare sull’isola deserta di Ata, dopo un viaggio di oltre 330 km in mare aperto. L’età era compresa tra i 13 e i 19 anni, ma nonostante fossero così giovani non ebbero timore di affrontare la sfida della sopravvivenza con tutti i mezzi che trovarono a loro disposizione. Ata, l’isola disabitata che li aveva accolti, non era il migliore dei rifugi. Priva di risorse, presentava numerosi pericoli naturali, come le scogliere a picco sul mare e la scarsa possibilità di reperire cibo e acqua dolce. Non proprio il paradiso che qualcuno potrebbe divertirsi ad immaginare in una situazione simile.

I giovani furono costretti ad imparare in maniera piuttosto veloce, e per ovvi motivi, l’arte della sopravvivenza. Le abilità di caccia e le conoscenze base che ognuno possedeva e che potevano essere utili furono ampiamente sfruttate. Costruirono rifugi nelle pareti di sabbia, catturarono uccelli marini e fecero riserve d’acqua piovana. Ci misero ben tre mesi, ma riuscirono a ristabilirsi per concentrarsi sull’obiettivo primario: essere salvati.

Stephen, nonostante la sua giovane età – era il più piccolo del gruppo, ricordiamo allora solo 13enne -, propose un’idea semplice ma efficace che venne ben accettata da tutti. L’idea era attirare l’attenzione dei soccorsi accedendo un grande falò. Dopo che il grande fuoco fu messo ad ardere, i ragazzi lo continuarono ad alimentare un intero anno, fino a che non vennero avvistati da un peschereccio australiano.

 

Il ritorno e la fama

Il ritorno alla civiltà portò loro fama internazionale e l’opportunità di girare un documentario sulla loro incredibile esperienza. Durante i 15 mesi di isolamento, i giovani mantennero un forte spirito di cooperazione e solidarietà, gestendo le malattie e le difficoltà con coraggio e determinazione. La storia dei naufraghi tongani continua a ispirare e ad essere studiata come esempio di resilienza umana e capacità di adattamento in situazioni estreme.

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