Lo scandalo “MegaFace” denunciato dal New York Times rischia di travolgere numerosi sviluppatori di software e ricercatori sull’intelligenza artificiale, poiché l’enorme database di foto usabili per gli algoritmi non è stato costruito con l’autorizzazione dei proprietari degli scatti.
La raccolta di foto da usare per le ricerche dovrebbe in teoria attingere solo da quelle pubbliche e scartare a priori, o anche in un secondo momento, tutti gli scatti impostati dall’utente come “privati”. Invece l’indagine del NYT ha scoperto il vaso di Pandora rivelando una falla di sicurezza che ha reso accessibili tutte le foto private, scatti di minorenni inclusi. Tutto questo è andato in pasto agli algoritmi per identificare le persone in base alle immagini e video dei loro volti.
Mentre si vocifera che lo Stato dell’Illinois si prepara a una class action degli utenti coinvolti contro le aziende utilizzatrici di MegaFace, preoccupa il ruolo di Google con il proprio Faculty Research Award in qualità di finanziatore del progetto
. Sebbene in buona compagnia con Intel e Samsung, c’è il sospetto che non tutta la verità è stata raccontata, e che le regole sul diritto della privacy siano state aggirate volutamente.È un fatto gravissimo, è vero, ma l’episodio ci ricorda che serve tenere massima attenzione sull’uso che le grandi piattaforme web fanno dei nostri dati. Dobbiamo essere attenti alle conseguenze ogni volta che condividiamo una foto, in particolare dei minori.
I servizi di riconoscimento facciale con intelligenza artificiale e quelli deputati al comando vocale sono già nel mirino di molte associazioni per i diritti civili, mentre Google e Amazon sono già finite nei guai per aver allenato gli algoritmi di intelligenza artificiale con frasi pronunciate dagli utenti nel chiuso delle loro case.
Mentre l’innovazione tecnologica corre e non si ferma davanti a nulla, la privacy rischia di essere la vittima sacrificale di questo inesorabile progresso.