Ne avevamo qualche sospetto negli ultimi mesi, ma ora è realtà. Il New York Times ha appena preso possesso di un immenso database contenente 50 miliardi di dati GPS presi dagli smartphone sugli spostamenti di 12 milioni di utenti americani soltanto tra il 2016 e il 2017.
Una notizia di per sé innocua per la privacy, se non fosse che la cosa ci fa capire che non siamo veramente liberi: se un tempo avremmo potuto sottovalutare la minaccia della condivisione della nostra posizione, un database che cade nelle mai sbagliate significherebbe guai.
Ora è vero che gli smartphone odierni condividano spesso la nostra posizione all’insaputa dei diretti interessati, ma sapere che in ogni istante noi veniamo tracciati tramite cellulari privati o aziendali e che tutti questi dati vengono poi salvati in database enormi desta preoccupazione.
Ma come vengono raccolti questi ping GPS? Purtroppo in maniera legale, poiché il network invia una richiesta al nostro dispositivo che risponde con un’informazione la quale contiene metadati sulla posizione. Tutte informazioni che se raccolte diventano preziose sia a livello statistico-commerciale e sia per un eventuale attacco hacker.
E tutto questo non lede la nostra privacy perché siamo spesso noi ad accettare i permessi alle applicazioni scaricate per la condivisione della posizione geografica. E sebbene la raccolta dei ping GPS è su base anonima, un hacker può facilmente decifrare una routine di un determinato utente e identificarlo.
Dunque meglio pensarci due volte prima di acconsentire a condividere la propria posizione a tante applicazioni che usiamo quotidianamente. La gestione della nostra privacy passa anche da qualche rinuncia.