Sono ormai trascorsi quasi quattro anni da quando, nel luglio 2016, i primi comuni furono dotati delle postazioni necessarie a consentire ai cittadini di richiedere la CIE, la Carta d’Identità Elettronica.
Il documento, che sarà disponibile per oltre il 97% della popolazione, possiede delle caratteristiche che ne denotano l’estrema avanguardia e che la rendono molto più che un semplice strumento per l’identificazione. Grazie al chip, dotato fra l’altro del sistema NFC, sarà possibile impiegare la carta per una vasta gamma di operazioni che prescindono dal riconoscimento in senso stretto. La CIE potrà infatti essere utilizzata per autenticarsi per SPID L3, per firmare un contratto, e innumerevoli altre applicazioni saranno implementate nel tempo – incluso l’utilizzo come secondo fattore di autenticazione nei servizi online che lo richiedano.
Ma può una carta contenere tutte queste informazioni senza timore che, qualora venisse smarrita, consegni tutti i nostri parametri di riconoscimento nelle mani di malintenzionati? O che le informazioni ivi contenute e custodite dalle istituzioni
possano essere in qualche modo trafugate?Il fattore sicurezza è stato uno dei motivi principali di dibattito prima dell’introduzione della nuova CI. Come d’altronde è naturale che fosse, visti gli innumerevoli utilizzi e l’estrema versatilità di questo strumento digitale.
D’altra parte, anzitutto i dati consegnati al momento della richiesta – che sono poi quelli contenuti all’interno del chip – non sostano presso l’ufficio a cui ci si è rivolti per ottenere la CIE, bensì vengono direttamente inviati alla banca dati centrale di massima sicurezza che custodisce tutti i dati dei cittadini, e non solo i propri.
In più, la carta d’identità elettronica risulta conforme ai requisiti di sicurezza ICAO MRTD, a cui tutte le carte d’identità europee dovranno adeguarsi tra circa due anni.