Chernobyl sarà ricordata a lungo. Stiamo parlando della cittadina al confine tra Ucraina e Bielorussia dove quel 26 Aprile 1986 si è consumata la tragica vicenda del peggiore disastro nucleare della storia.
Tante le testimonianze, altrettante le notizie taciute ultimamente raccontate all’interno dell’omonima mini serie TV trasmessa su Netflix da HBO in collaborazione con Sky. Si tenta di far luce su una questione che torna attuale in un 2020 che ha visto nuove indagini e perlustrazioni da parte dei droni. Sono state scoperte tante cose ma in queste ultime settimane si è posto risalto su una novità che ha dell’incredibile. Sembra che la nostra salvezza sia dipesa dalla natura. Ecco cosa è emerso dopo le indagini.
Chernobyl: poteva andare molto peggio
Le radiazioni rilevate in Francia, Germania e Nord Italia sono minime. Si stima un impatto nucleare pari all’1%. Sembra non esserci pericolo ma a proteggerci non è stata sicuramente la distanza o la cementificazione predisposta attorno al famoso Reattore 4. UN gruppo di eminenti scienziati ha infatti scoperto il Cladosporium sphaerospermum. Questo è un fungo le cui peculiarità biologiche sembra siano servite da scudo contro le radiazioni nucleari.
Al’interno del New Scientist si riporta un estratto della documentazione pubblicata a valle dello studio. Qui si può leggere che:
“È già stato in grado di assorbire i dannosi raggi cosmici sulla Stazione Spaziale Internazionale. Potrebbe essere potenzialmente utilizzato per proteggere le future colonie di Marte”.
Sembra che appena 21 centimetri di questo capolavoro della biologia bastino per assorbire l’attività radioattiva su Marte per un intero anno con un’esposizione di pochi minuti. A colpire è il fatto che tale fungo è in grado di ripararsi e replicarsi spontaneamente prosperando a tempo indefinito nell’ambiente.
Clay Wang dell’Università della California del Sud ha concluso confermando che:
“I progressi nell’uso dei poteri dei funghi per scopi medicinali sono stati graduali, ma sono stati potenziati negli ultimi anni da uno studio in corso che ne ha visto inviare campioni nello spazio. Coltivandolo nella Stazione Spaziale Internazionale, dove il livello di radiazione è aumentato rispetto a quello sulla Terra”.