Cenere, terra bruciata, devastazione. E’ questo il tremendo bilancio, all’indomani degli incendi che hanno interessato l’area circostante il reattore durante gli scorsi mesi. Sagome di alberi di cui restano pochi rami rinsecchiti e divorati dal fuoco che si stagliano in un paesaggio deserto, che già prima risultava tremendamente compromesso e che ora ha del surreale.
Proprio nel momento in cui la natura stava tentando, benché con difficoltà, di riprendersi gli spazi usurpati dall’ambizione e dal progresso umano – che ha portato un’antropizzazione marcata ed eccessiva anche in aree che si sarebbero potute preservare vergini – una nuova calamità è intervenuta a interromperne prematuramente la ricrescita.
Ad essere colpita è stata la cosiddetta “zona di esclusione” in prossimità della centrale di Chernobyl, ossia quell’area inclusa in un raggio di circa 30 km dal reattore. L’incendio, scoppiato ad aprile, è stato effettivamente domato solo a metà maggio, dopo già aver raggiunto un’estensione di 66.000 ettari – di cui 42.000 popolati da rigogliose foreste
, nate e cresciute in questi trent’anni dopo lo sgombero dell’area, e costellate di almeno 10 villaggi.Ma non è soltanto alla flora che bisogna volgere lo sguardo: l’ecosistema venutosi a ricreare negli anni aveva consentito anche una ripopolazione dell’area da parte di numerosi animali selvatici, che non sono stati risparmiati dalle fiamme.
La situazione sembrerebbe essere precipitata a causa di una propagazione dell’incendio rapida ed incontrollata, permessa da un inverno e una primavera insolitamente secchi.
I danni sono ingenti, ma secondo le autorità ucraine non irrecuperabili: c’è ancora speranza che le foreste continuino a persistere nelle zone dove il fuoco e la devastazione non sono arrivati, e che man mano anche nei punti più colpiti torni a crescere vegetazione.