In questo periodo di pandemia siamo sottoposti ad una quantità enorme di informazioni a carattere medico, sanitario e scientifico. Non tutti erano pronti a recepirle, tanto che spesso si è creato un gap di comunicatività tra gli scienziati/i medici – che tentavano di inquadrare la complessità dell’argomento pur cercando di renderlo accessibile al grande pubblico – e i giornalisti (e in senso lato, chi si occupa di far arrivare l’informazione ai cittadini), che talvolta non sono stati in grado di restituire lo stesso intento e lo stesso valore del messaggio di partenza a tutta la popolazione.
E da qui il proliferare di fake news e disinformazione, spesso mitigato dagli stessi scienziati che hanno preso parola sui social network o nei dibattiti pubblici intervenendo a stabilire un contatto diretto fra la prima fila della lotta al Coronavirus e la gente comune – spesso ignara della battaglia che si stava combattendo negli ospedali e nelle terapie intensive.
Fra le notizie che fecero più scalpore quando si stava cercando una terapia per l’infezione e le complicanze causate dal virus, vi fu l’applicazione della terapia al plasma, che ottenne ottimi risultati nella fase sperimentale e che ad oggi rappresenta (per quanto ancora controversa) uno dei trattamenti validi al fine di far guarire il paziente.
Ma in cosa consiste precisamente? Si tratta di una trasfusione di plasma da un paziente (avente una compatibilità di base con il ricevente) che ha già contratto il virus ed è in fase di guarigione ad un paziente positivo sintomatico: la trasfusione consente di far giungere nell’organismo del ricevente anche gli anticorpi anti-covid prodotti dal paziente “donatore”.
Inizialmente la notizia fu accolta con un sensazionalismo esagerato, che ha portato molti a credere che tutti i problemi fossero risolti grazie alla nuova terapia e che questa potesse essere applicata ad ampio raggio.
Ma questo tipo di soluzione presenta dei limiti enormi. Anzitutto, richiede un procedimento lungo e complesso, sia perché è necessario avere in partenza un grosso serbatoio di individui che abbiano contratto il virus e ne siano usciti indenni, sia perché le operazioni per la trasfusione implicano un notevole investimento di tempo e di denaro, perché il tutto deve avvenire nel rispetto di innumerevoli norme igieniche e spesso il trasporto del plasma deve avvenire tra centri ospedalieri differenti.
Inoltre, il nome terapia al plasma non è casuale: il termine terapia sta ad indicare un trattamento che si va a somministrare quando l’individuo è già ammalato e sintomatico, e spesso rappresenta una strada d’emergenza per salvare il paziente. Per giunta, è una terapia che richiede ospedalizzazione, con tutte le problematiche che essa comporta: saturazione dei reparti, maggior rischio di infezione del personale medico e sanitario, investimento di risorse umane e denaro.
Il vaccino, invece, costituisce una forma di profilassi. Questo vuol dire che si somministra una certa quantità di antigeni (che scatenano la risposta immunitaria e quindi fanno produrre gli anticorpi anti-covid) a soggetti sani e mai entrati a contatto con il virus. In questo modo, qualora il soggetto si infettasse con il Coronavirus, il suo organismo sarebbe già pronto ad aggredire la minaccia perché capace di riconoscerla e combatterla, e l’individuo non si ammalerebbe.
Per questo motivo, i due trattamenti non si equivalgono: la terapia per infusione di plasma rappresenta una strategia curativa d’emergenza per chi contrae il virus, il vaccino invece costituisce una tecnica di profilassi su larga scala, che va a prevenire ed evitare l’infezione.
Appare chiaro dunque che il vaccino – non appena sarà disponibile – rappresenti l’unica arma a disposizione per combattere in maniera efficace e massiccia il Sars-CoV-2.