Tutte le volte che visitiamo un sito utilizzando Chrome, quando guardiamo un video su YouTube o digitiamo un indirizzo su Google Maps per spostarci da una parte all’altra, Google acquisisce i nostri dati. Questi dati per Google sono il necessario per imporsi sul mercato della pubblicità online e per fare quindi profitti.
Secondo l’Antitrust che ha aperto un’istruttoria il gigante di Internet sta facendo di più: sta usando i nostri dati “in modo discriminatorio”. Li tiene tutti per sé tagliando fuori i suoi competitor. Così facendo diventa sempre più padrone del mercato, anche di quello italiano con i nostri dati.
La display advertising è lo spazio che editori e proprietari di siti mettono a disposizione per l’esposizione di contenuti pubblicitari attraverso banner o animazioni all’interno di un video. Tutta la raccolta pubblicitaria online è una miniera, con un valore che in Italia si è attestato a 3,3 miliardi nel 2019, pari al 22% delle risorse totali del settore dei media.
Ma il display advertising lo è in proporzione più di tutte le altre forme. Nel 2018, per citare un altro dato, ha raggiunto quota 1,1 miliardi. Sono soldi che servono a Google come a tutti gli altri player che giocano nel campo di Internet, sono la seconda fonte dei ricavi del settore dei media.
È fondamentale, quindi, essere protagonisti sul mercato del display advertising, in termini di ricavi e di sostentamento della propria attività. Google ha una posizione di vantaggio che è dettata dalla sua onnipresenza in tutti i comparti della filiera che compongono questo mercato.
Scrive l’Antitrust: “Google avrebbe utilizzato elementi traccianti che consentono di rendere i propri servizi di intermediazione pubblicitaria in grado di raggiungere una capacità di targhettizzazione che alcuni concorrenti altrettanto efficienti non sono in grado di replicare”.
Il conto di questi comportamenti non lo pagano solo i competitor di Google, ma in mezzo ci siamo tutti noi. Le risorse destinate agli editori e ai produttori di siti potrebbero ridursi senza la concorrenza nell’intermediazione del mercato pubblicitario e si impoverirebbe la qualità dei contenuti, allo stesso tempo la stessa assenza di concorrenza potrebbero scoraggiare l’innovazione per lo sviluppo di tecniche pubblicitarie meno invasive per i consumatori.