L’inizio del 2020 sembra tratto da una profezia dell’apocalisse. Tra gli incendi che hanno devastato Australia e Siberia, le tensioni politiche tra USA e Iran, e l’epidemia poi divenuta pandemia da Sars-CoV-2, si è aperto un periodo estremamente difficile e delicato sotto molti punti di vista.
A seguire però, tra fine marzo e inizi aprile, si è aggiunta una circostanza che nessuno avrebbe augurato: un incendio di grosse proporzioni ha colpito quella regione rinominata, dopo lo scoppio della centrale nucleare di Chernobyl nel 1986, Foresta Rossa.
Sembra uno scherzo del destino, quasi: proprio l’anno scorso numerose testate giornalistiche riportavano (quasi trionfanti) la notizia che la zona circostante alla centrale stesse ripopolandosi di flora e soprattutto fauna selvatica. Cervi, scoiattoli, mammiferi di diverse specie erano tornati ad abitare quei luoghi che per anni erano stati abbandonati:
la natura stava cominciando, a fatica, a riprendersi i propri spazi.Ma proprio quando questo processo sembrava ormai ben avviato, le fiamme hanno riportato tutto al punto di partenza, se non addirittura più dietro. Gli animali, nel migliore dei casi, sono fuggiti terrorizzati dall’incendio, laddove non sono periti invece bloccati dal fuoco.
I droni che hanno sorvolato la zona hanno rivelato ben 35 ettari di terreno bruciati dalle fiamme, che si ipotizza avessero origine dolosa. Ad aggiungere ulteriore preoccupazione, mentre l’area ardeva, si sono registrati valori di radiazioni 16 volte superiori alla norma.
Al tempo stesso, le autorità locali si sono affrettate a rassicurare i cittadini sulla non pericolosità di queste radiazioni, che non risultano impattanti sul benessere della popolazione.