La potenza di calcolo richiesta per supportare il bitcoin ora richiede quasi la stessa energia dell’intera Argentina. Questo porta a numerose critiche sulla sua impronta ambientale. L’analisi dell’Università di Cambridge suggerisce che il bitcoin utilizza più di 121 terawattora (TWh) all’anno. Ciò classificherebbe la nota criptomoneta tra i primi 30 consumatori di elettricità in tutto il mondo se fosse un Paese.
Fin dall’inizio, il pioniere delle criptovalute Hal Finney ha twittato sulle potenziali emissioni di CO2 già nel 2009. La quantità di energia consumata non è stata così drastica fino al 2017, quando un importante rialzo dei prezzi ha spinto il suo fabbisogno energetico al livello di un Paese. Il mercato si è raffreddato negli anni successivi, ma l’ultimo massimo storico raggiunto questa settimana è più del doppio di quello di tre anni e mezzo fa. E questa volta il suo fabbisogno energetico è maggiore.
“Il consumo di energia del Bitcoin è più che quadruplicato dall’inizio del suo ultimo picco nel 2017 ed è destinato a peggiorare. Più il suo prezzo aumenta più energia consuma”. L’impatto ambientale del Bitcoin è esacerbato dal fatto che la maggior parte dei minatori ha sede in Cina, dove oltre due terzi dell’energia proviene dal carbone. Il processo di mining necessario per generare nuove unità attualmente richiede più potenza di elaborazione del previsto.
In Islanda e Norvegia, dove quasi il 100% di tutta la produzione di energia è rinnovabile, i miner di criptovaluta stanno sfruttando l’energia idroelettrica e geotermica a basso costo per alimentare le loro macchine. Le basse temperature aiutano anche a ridurre i costi di raffreddando per i server dei computer. “Penso che l’ultimo studio dell’Università di Cambridge sia fuorviante. Il bitcoin agisce come se fosse ‘oro digitale‘. Quindi dovrebbe essere paragonato al consumo di energia di altri beni di valore”.