La probabilità che un virus muti aumenta all’aumentare dei soggetti che infetta. E com’era prevedibile, anche il SARS-CoV-2 ha subito diverse mutazioni nel proprio genoma. Si potrebbe dire senza sbagliare di molto che al momento esistano migliaia di varianti del Covid, ma solo alcune ci interessano a livello clinico in quanto presentano caratteristiche più pericolose del wild type (ossia il ceppo di partenza).
Esaminare le varianti è altresì importante per verificare concretamente in che modo si diffondono all’interno di una popolazione, e come arrivano ad infettare anche altri Paesi oltre quello in cui sono state scoperte per la prima volta. E’ il caso delle tre varianti che al momento appaiono le più temibili quanto a conseguenze: l’inglese, la sudafricana e brasiliana.
Concentrandoci con la variante più vicina a noi, nonché quella con cui ci stiamo confrontando ampiamente proprio in questo momento, appare chiaro quanto la variante inglese abbia letteralmente monopolizzato la maggior parte delle nuove infezioni da Covid-19. Fortunatamente, però, è stato possibile piuttosto precocemente l’isolamento e lo studio delle sue peculiarità, per affinare la lotta e la gestione della terapia contro questa nuova tipologia.
Le caratteristiche della variante inglese consistono anzitutto in una maggiore aggressività e facilità di trasmissione rispetto al wild type. Questo le consente di diffondersi più rapidamente e infettare un maggior numero di individui.
I sintomi di partenza sono sovrapponibili a quelli della variante di base, presentandosi però con una maggior frequenza: su un campione di 3.500 pazienti analizzati, è risultato che:
A questi, si aggiungono 5 sintomi che potremmo definire “atipici” nell’infezione iniziale da SARS-CoV-2, e che invece caratterizzano la variante inglese altresì denominata B.1.1.7: forte debolezza e spossatezza, che spesso precedono i sintomi più comuni, e a questi si associano problematiche di natura neurologica, come vertigini, malessere e nausea.