In Cina, le emissioni di carbonio dovute all’estrazione del bitcoin stanno aumentando rapidamente, presto supereranno i livelli di consumo energetico di Italia e Arabia Saudita. Nei prossimi tre anni potrebbero consumare la stessa energia che consumerebbero 181 Paesi.
Il mining (estrazione del bitcoin) comporta la risoluzione di enigmi complessi e una grande potenza di calcolo, il che significa che le operazioni avvengono generalmente in aree in cui l’elettricità è a buon mercato. Le regioni della Cina ad alto contenuto di carbone hanno quindi attratto i minatori di bitcoin negli ultimi anni. Negli ultimi mesi oltre il 75% delle operazioni di mining a livello globale ha avuto luogo proprio in Cina.
Il consumo energetico annuale raggiungerà il picco nel 2024. “Di conseguenza, i flussi di emissioni di carbonio raggiungeranno l’apice di 130,5 tonnellate metriche all’anno nel 2024. A livello internazionale, questa produzione di emissioni supera la produzione totale di emissioni di gas a effetto serra della Repubblica Ceca e del Qatar nel 2016.”
Sono tanti – ma vani – i tentativi per rimediare prima che sia troppo tardi. La dipendenza dal carbone e da altri combustibili fossili rende il bitcoin un grosso ostacolo anche per la promessa fatta dalla Cina riguardante le emissioni di carbonio. Infatti, la Cina mira a non emettere più carbonio entro il 2060.
Alcuni si stanno già spostando in altre zone in cui sono utilizzate fonti di energia rinnovabile, ma potrebbe non essere sufficiente. Questa tendenza è cresciuta negli ultimi anni di pari passo con l’impatto ambientale del bitcoin. Secondo il Global Cryptoasset Benchmarking Study 2020 dell’Università di Cambridge, il 76% dei miner di criptovalute utilizza elettricità da fonti rinnovabili, rispetto al 60% rilevato nel 2018. Se siete interessati e volete saperne di più, l’ultimo studio è stato pubblicato pochi giorni fa sulla rivista Nature Communications.