Infatti, il mining in Cina è tornato più forte di prima, con numeri altissimi all’attivo specialmente nelle ultime settimane. A segnalare ciò è stata una ricerca del Cambridge Center for Alternative Finance.
Nel 2021, molti minatori cinesi hanno dovuto emigrare in altri Paesi, Kazakistan e Russia fra tutti. L’hash rate del Paese crollò infatti sensibilmente, chiaro segnale di come lo stop cinese andò ad intaccare l’attività di mining in tutto il mondo. Di fatto, la Cina deteneva il 65%- 75% dell’hash rate mondiale
.In questi dieci mesi, però, la situazione è cambiata totalmente. Infatti, nonostante il divieto, i miners hanno ricominciato a minare Bitcoin in Cina, creando un’attività florida che va avanti in silenzio e quasi impossibile da scovare anche per l’implacabile Governo cinese.
La Cina è fortemente dipendente dal carbone, quindi il mining di criptovalute era un ostacolo per il suo obiettivo di diventare carbon neutral entro il 2060. Tuttavia, il blocco è stato praticamente inutile, poiché la Cina si è riconfigurata come la seconda potenza al mondo per quanto riguarda il mining di Bitcoin, dietro solo agli Stati Uniti, con 2 milioni ancora da estrarre.
Gli eventi, però, rispetto a prima potrebbero palesarsi in maniera differente, poiché il crollo di Bitcoin (-50% rispetto a novembre 2021, prima dello stop) è stato indubbiamente un duro colpo anche per gli irriverenti miners cinesi.