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Ferrari: il modello più vecchio in circolazione raccontato in un video

Ferrari, brand iconico italiano del cavallino rampante, ha recentemente pubblicato un video sul proprio canale YouTube, intitolato “A Ferrari story – the oldest road-going Ferrari in the world”, in cui si vuole raccontare una storia fantastica: la “vita” del più vecchio modello Ferrari ancora in circolazione.

Stiamo parlando di una Tipo 166 Inter del 1948, di proprietà di una signora in Nuova Zelanda, una vettura riscoperta solo di recente, con numero di serie 007-S, ovvero costruita solo nel secondo anno di esistenza della fabbrica, per essere poi acquistata da Amanda Philips circa 30 anni fa. I più appassionati potrebbero notare non avere la scocca classica, in quanto comunque nel corso degli anni la stessa vettura ha cambiato più volte proprietario, con il quarto, un capitano dell’esercito americano in stanza in Italia, che la fece schiantare, tanto da rovinarla irreparabilmente.

Fu compito di Bob McKinsey, che la acquistò nel 1954, il successivo restauro negli Stati Uniti, con la scocca che venne successivamente completata da Thomas Wiggins

, il quale però necessitò di altri 15 anni per trovare la carrozzeria coupè adatta (una delle sole cinque realizzate). Il progetto di restauro venne bloccato nuovamente, fino al 1994, quando venne acquistata dagli attuali proprietari, che l’hanno nuovamente rimessa in moto, macinando negli anni oltre 50’000km.

 

Ferrari: una storia fantastica

Una storia affascinante che parte proprio dalle origini del brand italiano, la 007-S è stata la prima ad integrare la dicitura Inter, con i vecchi numeri di serie divisi tra pari e dispari, ad indicare che fosse una vettura per strada o per pista. La 001-S e la 003-S sono andate perdute per sempre, la 005-S è localizzata nel museo Ferrari di Modena, dimostrando che la suddetta 007-S è la più vecchia Ferrari ancora in circolazione, con motore V12 da 2,0 litri.

Un vero e proprio pezzo della storia dell’automobile, non solo italiana, ma mondiale.

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Pubblicato da
Andrea Azzerboni