Spotify, l'accusa è grave: usata AI per penalizzare gli artisti su ascolti e guadagni

Purtroppo ogni giorno arrivano delle novità che sembrano smentire tutto quello che di buono fanno le piattaforme. In questo caso sul banco degli imputati ci è finita Spotify, piattaforma di musica che detiene il dominio in tutto il mondo ormai da qualche anno. Secondo quanto riportato, dopo un’inchiesta, sarebbe venuto fuori che la piattaforma avrebbe utilizzato intelligenza artificiale per generare musica. In questo modo avrebbe ridotto sia gli ascolti che guadagni degli artisti creando appositamente dei brani utili a riempire le playlist. Lo scopo sarebbe stato da parte di Spotify quello di creare della competizione con i brani degli artisti indipendenti riducendo inesorabilmente le loro opportunità di guadagno.

Musica generica per massimizzare i profitti: che accusa per Spotify

Il programma PFC prevede la produzione di tracce che imitano generi popolari come lo-fi, musica ambient e classica. Spotify acquista questi contenuti per una tariffa fissa, evitando così di pagare royalties per ogni stream. Questo metodo permette all’azienda di risparmiare significativamente, spingendo contenuti generici a scapito della musica autentica.

Le royalties riconosciute agli artisti su Spotify sono già tra le più basse nel settore, con compensi che oscillano tra 0,003$ e 0,005$ per stream. Il ricorso a brani prodotti a basso costo solleva quindi preoccupazioni etiche, poiché potrebbe minare ulteriormente il fragile equilibrio economico per molti musicisti indipendenti.

L’uso dell’AI e i rischi per l’autenticità

L’utilizzo dell’AI era stato presentato come un’opportunità in più per l’industria musicale. Secondo il CEO di Spotify Danel Ek, si trattava di una grande risorsa ma i critici e gli esperti avvertono che tutto ciò potrebbe portare grande mancanza di autenticità e soprattutto alla saturazione delle playlist.

Spotify ha negato le accuse di dare priorità ai brani PFC rispetto a quelli degli artisti. Tuttavia, alcune testimonianze raccolte da Harper’s Magazine contraddicono queste dichiarazioni, sostenendo che gli editor delle playlist siano stati istruiti a inserire un alto numero di brani low-cost per ridurre i costi aziendali.

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